Una stagione teatrale lontana dal presente
Andrea Bisicchia, «Il giornale».
Il teatro non è mai immune da ciò che accade nella vita sociale, anzi ne è il testimone visibile e invisibile, suo compito è quello di sviluppare il pensiero critico col solo mezzo che ha a disposizione, quello del linguaggio scenico che può essere di tipo rappresentativo o performativo.
Milano ha scelto, con i suoi teatri più importanti, il primo tipo, con abbondanza di adattamenti, riscritture, rielaborazioni di classici antichi e contemporanei e con risultati che accontentano il botteghino. Mantenere uno stile, un’idea per cui si è nati, è diventato alquanto difficile. Spettacoli come La tragedia del vendicatore al Piccolo o come Afghanistan all’Elfo o Un cuore di vetro in inverno di Timi al Parenti, lasciano un segno, ma non indicano un nuovo tracciato nell’ambito di un futuro diverso, al quale si sforzano di dare un contributo nuovi gruppi o Collettivi che, pur visti a Milano, fanno ricerca in altre sedi, con risultati molto referenziali, con cast diseguali, con molta libertà nella recitazione.
Si tratta di Collettivi che cercano l’effetto scandalo o la cronaca che fa notizia. C'è da dire che neanche le due sedi dove si fa ricerca, ZONA K e Triennale Teatro dell’Arte, si siano contraddistinti per continuità, benché spettacoli come Nachlass, My Documents, Project Mercury, Perhaps all the Dragons abbiano creato uno spiraglio di ricerca alternativa, tutta di matrice straniera, dove ad imporsi è proprio il teatro performativo che cerca di dare voce al presente, facendo uso della tecnologia e di piattaforme digitali.
Molti di quelli che si ritengono performer sono attori mancati. Per questo motivo, consiglio loro di leggere il volume, appena uscito, di Richard Schechner: Introduzione ai Performance Studies, edito da Cue Press. Comincio col dire che la Performance appartiene a una tradizione interculturale antica, con delle forme specifiche, con le quali si manifesta, che coinvolgono discipline diverse. Si potrebbe affermare che si tratti di uno spettacolo-evento, da considerare qualcosa di unico e irripetibile, tanto che luogo e tempo derivano dall’evento stesso, essendo caratterizzati dalla simultaneità, oltre che dalla casualità.
In molti casi, si tratta del teatro senza spettacolo, quello che fu, per esempio, teorizzato da Carmelo Bene, in qualità di direttore della Biennale di Venezia (1989-91), quando portò in scena il Nulla, a dimostrazione di essere stato un vero performer, oggi ricordato come tale, dato che i suoi testi, senza di lui, non possono avere vita scenica. Schechner offre un ‘manuale’ che contiene molti interventi di studiosi che si sono occupati dell’argomento e che propongono un panorama internazionale sugli studi che hanno caratterizzato la storia della Performance e del suo rapporto con le Arti dello spettacolo, dei Rituali, del Gioco, della Recitazione, dei Processi formativi, sia globali che interculturali.
Egli cita più volte Goffman, autore di un classico della sociologia: La vita quotidiana come rappresentazione (1959), in cui lo studioso utilizza la metafora teatrale, direi con grande competenza, da applicare alla vita sociale, ma cita anche i suoi incontri con Victor Turner, al quale dobbiamo due altrettanto classici, pubblicati nel 1986: Dal rito al teatro e Antropologia della Performance, della quale vengono affrontati i diversi generi. Schechner si mette in continua relazione con Turner, teorizzando la sua idea di Performance, da intendere come una sequenza di atti simbolici che hanno a che fare con la vita dei popoli e dei loro ‘drammi sociali’, tanto che il suo carattere di messinscena si interseca, in molti casi, con gli accadimenti sociali, evidenziando le crisi che producono tutte le situazioni liminali.
Il teatro è ancora necessario? Lo sarà finché darà voce al presente e ai dubbi della nostra esistenza.